lunedì 2 agosto 2010

Prigionieri del deserto

Ha il sapore di un'amara beffa la vicenda dei 250 richiedenti asilo eritrei detenuti per quasi venti giorni nel carcere di Brak, nel cuore del deserto libico. Ufficialmente sono liberi dal 16 luglio, di fatto, sono ancora prigionieri in una città, Sebah, che non può offrire loro una casa né tantomeno un lavoro. «A Sebah non c'è nulla. E questi ragazzi vivono come barboni, dormono per strada e non hanno accesso a nessuna forma di asstenza», denuncia don Mussie Zerai, sacerdote eritreo e presidente dell'associazione Habeshia, che da oltre un mese lotta per tenere accesa l'attenzione sulla loro drammatica vicenda.

«Un centinaio di profughi è riuscito a lasciare Sebah - racconta - per dirigersi verso Tripoli». Nella capitale, infatti, è più facile trovare accoglienza e assistenza da parte dei connazionali o della Caritas locale. Tra di loro ci sarebbero anche i feriti più gravi, quelli che vennero brutalmente picchiati durante la rivolta di Misratha del 29 giugno e che vennero lasciati per giorni, senza cure, nel carcere di Brak. «Sono riusciti a partire perché gli altri hanno organizzato una colletta», racconta don Mussie.

Ma questo viaggio però comporta, automaticamente, la ricaduta nell'illegalità, agli occhi delle autorità libiche: il documento di soggiorno che i dannati di Brak avevano ottenuto all'indomani della scarcerazione (e che li autorizza a cercare lavoro in Libia, alla stregua di tutti i cosiddetti "migranti economici", ndr) ha valore solo nella regione di Sebah. Fuori di quei confini, è solo un pezzo di carta. Ma quello che più preoccupa don Mussie è la durata di quei documenti: «Sono validi solo per tre mesi. E allo scadere del termine, i ragazzi torneranno a essere clandestini. Il problema è stato solo rimandato - aggiunge don Zerai -. Tutto l'accordo sulla scarcerazione dei ragazzi è stato un grande pasticcio».

Un pasticcio che rischia di finire nel dimenticatoio: dopo la liberazione dei detenuti di Brak, infatti, su tutta la vicenda si sono spenti i riflettori dei media. «Si sta cercando di addormentare le coscienze!», dice con rabbia don Mussie che non si stanca di rinnovare l'appello che ha lanciato più e più volte nell'ultimo mese: «L'Italia e i Paesi dell'Unione europea devono accogliere questi ragazzi, offrire loro la possibilità di chiedere asilo politico e costruirsi una nuova vita», chiede.

E proprio al nostro Paese tocca compiere il primo passo, proprio perché fu l'Italia a respingere in mare le imbarcazioni cariche di migranti che, nell'estate del 2009, si avvicinavano alle nostre coste con a bordo un numero elevato di richiedenti asilo. «Abbiamo un elenco con i nomi di cento respinti», conclude don Mussie. Molti di loro erano detenuti nell'infero di Brak e, probabilmente, ora sono "prigionieri" a Sebah.

lunedì 5 luglio 2010

I desaparecidos di Maroni

«Non possiamo sapere quanti siano, ma siamo certi che fra i 250 eritrei che rischiano la deportazione ci siano rifugiati respinti nel 2009 dalle forze italiane in Libia». Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) non nasconde la preoccupazione. Sono ragazzi e ragazze molto giovani, in fuga da un dittatore che li vorrebbe costretti alla leva militare per tutta la vita. Se fossero riusciti ad arrivare in Italia, avrebbero ottenuto la protezione umanitaria.
I profughi sono rinchiusi nel carcere di Brak (a 80 chilometri da Sebah, nel cuore del deserto) con una temperatura che sfiora i 50 gradi. «In ogni cella ci sono 90 persone, stipate così strettamente che non hanno nemmeno lo spazio per stendersi e dormire; 18 sono feriti gravemente». Malgrado le difficoltà, don Mussie Zerai, presidente dell’associazione Habeshia di Roma, riesce a mantenere i contatti con i profughi deportati martedì 29 giugno dal carcere di Misratha. Nessuno ha ricevuto assistenza medica, il rischio di infezioni è altissimo. Acqua e cibo sono insufficienti. «Venerdì sera - dice don Mussie - il responsabile del centro di detenzione li ha convocati per annunciare che entro una settimana verranno deportati in Eritrea». Inoltre tre persone sono scomparse: prelevate dai militari con la scusa di andare a prendere dell’acqua, e non hanno più fatto ritorno. Il campo di Brak, infatti, è gestito dai servizi di sicurezza dell’esercito libico e non dalla polizia, come avveniva per il centro di Misratha. I prigionieri sono angosciati: temono per la loro vita perché, dopo la rivolta di Misratha, sono visti come una minaccia per la sicurezza nazionale.

Una situazione drammatica. Per questo motivo gli eritrei di Brak chiedono, attraverso l’associazione Habeshia, «di essere accolti in un Paese terzo, dove vengano rispettati i loro diritti». L’appello viene sostenuto dal Cir che venerdì ha scritto al ministro Maroni, chiedendo che «l’Italia si faccia carico di queste persone, offrendo al governo libico l’immediato trasferimento e reinsediamento in Italia».
«L’apprensione è massima - denuncia Gabriele Del Grande, fondatore del sito "Fortress Europe" - anche nella comunità eritrea di Tripoli è piombata la è paura. Senza dimenticare quello che potrebbe accadere a questi ragazzi se venissero riportati in Eritrea. Di sicuro finirebbero in un campo di detenzione militare».
Sulla rete, anche grazie all’attività di "Fortress Europe", c’è grande mobilitazione. L’osservatorio chiede ai suoi utenti di scrivere una mail al ministro Maroni e al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano «per chiedergli di fermare le violenze e le deportazioni in Libia».

«Le nostre coscienze non possono rimanere tranquille mentre succedono queste cose. Si stanno macchiando di un peccato che rimarrà nella storia dell’umanità - ha detto ieri padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, in un intervento a Radio Vaticana -. Il silenzio fa passare tutto questo come una cosa normale ma è tremendo». La Libia infatti non rende conto a nessuna autorità internazionale del suo operato. Anche l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati è stato allontanato dal Paese circa tre settimane fa.

mercoledì 14 aprile 2010

Alzatevi, andiamo

Un ricordo, con qualche giorno di ritardo. Era l'8 aprile 2005. Qualche giorno prima mi aveva chiamato un'amica. "Hai 100 euro da spendere e una giornata libera? Andiamo a Roma ai funerali del Papa?". Una proposta del genere, da una persona come lei, non me la sarei mai aspettata. Ma l'ho colta al volo e abbiamo affrontato assieme il viaggio verso Roma. Un'anno dopo mi hanno chiesto di ricordare quella "follia", in un'articolo per "Missioni francescane".

Momenti in cui le parole sembrano essere troppo limitate per descrivere un evento. Minuti in cui il silenzio sembra essere il solo modo per esprimere un'emozione in maniera completa. Voglio partire proprio dal grande silenzio dei primi istanti della celebrazione della Santa Mesa, in occasione dei funerali di Giovanni Paolo II, perchè solo in quel momento ho capito tutti i sentimenti che provavo e che stavo condividendo con altre migliaia di persone.
Erano le ore 10 di venerdì 8 aprile 2005. Lentamente i cardinali hanno iniziato a sfilare dalla pora della basilica per accostarsi all'altare. Poi una cassa di legno chiaro è apparsa ai nostri occhi ed è stata deposta sul sagrato. In quel momento tutto si è sciolto in un lunghissimo applauso e le grida "Santo! Santo!".
Un Vangelo è stato deposto, aperto, sulla bara. Avrrei voluto sapere quale pagina era stata scelta, ma il vento che soffiava sulla piazza l'ha immediatamente voltata. Come se anch'esso avesse voluto dire la sua, farsi interprete delle parole del testo più sacro per la fede e lanciare un messaggio.
Io non sono il vento, io non ho il calore degli applausi. Non sono capace di esprimere a parole i sentimenti che ho provato durante quel grandissimo evento e che sto ancora provando. Ma voglgio tentare. Mi sono resa conto di aver partecipato a una grande follia collettiva. Solo un pazzo avrebbe preso parte a quel viaggio nonostante gli appelli delle istituzioni a non recarsi a Roma.
"Alzatevi, andiamo!", ha detto e continua a dire papa Wojtyla. Sono state quelle le parole che hanno spinto quattro milioni di persone a partire per una folle avventura. Lunghe code e notti all'addiaccio per l'ultimo saluto a una grande persona. C'erano polacchi e francesi, romani e milanesi, tanti volontari, pellegrini, religiosi e scout.
Tutti raccolti nell'abbraccio del colonnato di piazza San Pietro, lungo viale della Conciliazione, a Tor Vergata, al Colosseo. Tutti ad ascoltare la melodia delle parole della Messa e l'omelia di colui che, pochi giorni dopo, sarebbe diventato Benedetto XVI: "Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice (...). Noi affidiamo la tua cara anima alla Madre di Dio, tua Madre, che ti guiderà adesso alla gloria eterna del Suo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Amen".

sabato 27 marzo 2010

Notturno in via Padova

"Quante volte, in questa nostra via Padova, guardiamo con superbia a gente nata in altri Paesi".

E quante volte chiediamo a questa gente di dimostrare di essere più nella legalità di noi con cavilli stupidi e leggi folli che impongono il coprifuoco in una strada che quotidianamente viene attraversata da camionette di militari, carabinieri, e pattuglie della polizia locale. Ieri sera, mentre aspettavo l'autobus con un'amica, abbiamo contato cinque automezzi in una sola volta.

Un venerdì sera come tanti. Una birra e una piadina al Ligera, un locale di via Padova che giovedì 25 marzo ha sfidato provocatoriamente il coprifuoco imposto dal Comune di Milano a tutta la via. Ma non era un venerdì qualunque. Me ne sono resa conto mentre tornavo a casa: lampeggianti blu all'orizzonte, traffico rallentato e una piccola folla di ragazzini con le candele in mano. Una voce al megafono recitava i passi della Via Crucis: Gesù spogliato delle vesti, Gesù inchiodato sulla croce...

Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: "Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!". Ma l'altro lo rimproverava: "Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male". E aggiunse: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gli rispose: "In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso".

Una voce nel silenzio della via. Fermi, davanti alla porta di un ristorante arabo, camerieri e clienti ascoltavano in rispettoso silenzio. Un venditore di rose osservava attento, con un sorriso. "Quante volte, in questa nostra via Padova, guardiamo con superbia a gente nata in altri Paesi. Gesù, dalla croce, ci dimostra che è possibile accogliere".

Continuo a pedalare verso casa, con una bella sensazione nel cuore. Me la ammazzano alla rotonda di via Giacosa. Lampeggianti e quattro pattuglie dei vigili che, troppo intenti a controllare i pochi automobilisti di passaggio, obbligano la 56 a fermarsi e fare manovra.

martedì 2 marzo 2010

Ecco a voi i nuovi cittadini




"Ma quali criminali, ma quali clandestini, ecco i nuovi cittadini"

Solo ora, spulciando le foto su internet e agenzie, riesco a godermi quei momenti. Perchè la mia testa era nel vortice delle cento cose da fare. E non sono riuscita a guardare, ad ascoltare.

Ora posso iniziare a scrivere. Il primo marzo è passato. Meno di tre ore fa, in piazza Castello, a Milano, stavano parlando Ahmed e Jorge, Said e una ragazza ucraina. Diritti, permesso di soggiorno, lavoro (ma non solo), seconde generazioni, voto e cittadinanza. Razzismo, vergogna! Mille e più parole per raccontare sogni e aspettative, sdegno e rabbia. Qualcuno si è anche fatto un po' prendere la mano. Ventimila persone che hanno sfilato tra piazza Duomo e il Castello con le fiaccole in mano, le bandiere del Perù, dell'Ecuador, del Senegal e anche due tricolori.

Ma è giusto che restino solo sogni e aspettative? E' giusto che una ragazza nata e cresciuta in Italia non abbia la cittadinanza dopo 25 anni di vita qui? E' giusto che il rinnovo di un permesso di soggiorno debba essere atteso per più di un anno? Noi accetteremmo che il rinnovo della carta d'identità o della patente si trascinasse per così tanto tempo? Ah, già. Sono ospiti. Sono qui per un po', per lavorare, tanto poi se ne vanno.

giovedì 17 dicembre 2009

Uno sfratto... ad alta velocità

Occhialetti, cappotto nero con il collo di pelliccia, tra le braccia stringe un piumino rosso. Tra la piccola folla, che attende la distribuzione dei pacchi viveri, spicca una signora minuta e dall'aria distinta. Domenica sera, stazione ferroviaria Greco Pirelli, sono una sessantina i clochard che trascorreranno qui la nottata. La stazione è più affollata del solito: recentemente una trentina di persone si sono trasferite qui, dopo essere stati "sfrattati" dalla stazione Centrale. Colpa dell'alta velocità, spiegano i senza dimora di Greco: da quando i Frecciarossa hanno preso casa in Centrale loro hanno dovuto andarsene. "Hanno chiuso le sale d'attesa -spiega Raffaele- inoltre, durante la notte, la polizia ferroviaria viene a buttarci fuori dai treni. Prima non era così". Pochi quelli che "resistono" nel principale scalo ferroviario milanese: "Si nascondono in coda e 'n capa dei treni", spiega Carmine. Il più delle volte li accompagnano, semplicemente, all'uscita. Altre staccano la multa: 516 euro.
Verso mezzanotte la sala d'attesa del piccolo scalo ferroviario, poco distante dall'Università Bicocca, arriva a ospitare fino a 35 persone. Altri gruppetti dormono all'addiaccio, all'esterno della stazione.
I volontari della fondazione Fratelli di San Francesco arrivano con il loro pulmino verso le 21.15. "Ci sono molti anziani, soprattutto donne, in precarie condizioni di salute", spiega un operatore. Alcuni, pare, anche malati di diabete. Tra la gente in attesa, anche alcune persone con una busta di plastica in mano: "Io ho una casa, ma non ho i soldi per mangiare. Per me e per i miei bambini -spiega Giuliana-. Qui almeno mi danno un po' di spesa".
Quasi tutti gli ospiti della stazione di Greco sono italiani. "Uno zoccolo duro che non accetta il dormitorio -spiega padre Clemente Moriggi, presidente della Fondazione Fratelli di San Francesco-. Molti hanno il cane o la compagna e non accettano di essere separati". A Milano mancano infatti gli spazi per un'accoglienza dei nuclei familiari. "Dateci un capannone e ci pensiamo noi -ribatte Ida, dell'associazione "Linea gialla"- costruiamo le stanzette e ci organizziamo in autogestione.

sabato 5 dicembre 2009

Salto all'indietro

"Me ne frego! Me ne frego!". Milano, un venerdì sera qualunque. In una carrozza del metro che collega la stazione Garibaldi alla Centrale. Una decina di ragazzi, giovanisismi, sciarpe della Juve al collo, ma potrebbero essere quelle di qualsiasi altra squadra. Tra loro una ragazzina dal viso dolce. Carina.

"Me ne frego è il nostro motto, me ne frego di morire, me ne frego di Togliatti e del sol dell'avvenire". La prima strofa non mi colpisce particolarmente, fanno così tanto baccano che l'unico pensiero è "speriamo che scendano presto!" Solo che quel "me ne frego" mi fa venire in mente qualcosa che non riesco a mettere a fuoco.

"Ce ne freghiamo della galera, camicia nera trionferà. Se non trionfa sarà un macello
col manganello e le bombe a man!". Il braccio destro teso. "Duce! Duce! Duce!". Urlato tre volte, senza remore, senza che nessuno in quella carrozza del metro avesse nulla da ridire. Il repertorio passa poi a un "Faccetta nera" appena abobzzato e ad altri cori contro l'interista Mario Balotelli. Perché, per loro, non può esistere un "negro italiano".

Nemmeno io, a dire il vero, ho provato a dire qualcosa a questi ragazzi. Paura? Si, perché se a vent'anni non sai fare niente di meglio che cantare queste schifezze in metropolitana (in mezzo alla gente che torna a casa dal lavoro) o sei un idiota che non sa che in Italia esiste una legge che punisce l'apologia di fascimo. Oppure sei veramente convinto di quello che dici. E questo, mi fa molta paura.

Una scena cui, sinceramente, non credevo di dover mai assistere. Almeno, non all'interno di un momento di banale quotidianità come può essere un viaggio in metropolitana. Sarà un caso, ma ho appena finito di leggere "Bande nere" di Paolo Berizzi.