lunedì 5 luglio 2010

I desaparecidos di Maroni

«Non possiamo sapere quanti siano, ma siamo certi che fra i 250 eritrei che rischiano la deportazione ci siano rifugiati respinti nel 2009 dalle forze italiane in Libia». Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) non nasconde la preoccupazione. Sono ragazzi e ragazze molto giovani, in fuga da un dittatore che li vorrebbe costretti alla leva militare per tutta la vita. Se fossero riusciti ad arrivare in Italia, avrebbero ottenuto la protezione umanitaria.
I profughi sono rinchiusi nel carcere di Brak (a 80 chilometri da Sebah, nel cuore del deserto) con una temperatura che sfiora i 50 gradi. «In ogni cella ci sono 90 persone, stipate così strettamente che non hanno nemmeno lo spazio per stendersi e dormire; 18 sono feriti gravemente». Malgrado le difficoltà, don Mussie Zerai, presidente dell’associazione Habeshia di Roma, riesce a mantenere i contatti con i profughi deportati martedì 29 giugno dal carcere di Misratha. Nessuno ha ricevuto assistenza medica, il rischio di infezioni è altissimo. Acqua e cibo sono insufficienti. «Venerdì sera - dice don Mussie - il responsabile del centro di detenzione li ha convocati per annunciare che entro una settimana verranno deportati in Eritrea». Inoltre tre persone sono scomparse: prelevate dai militari con la scusa di andare a prendere dell’acqua, e non hanno più fatto ritorno. Il campo di Brak, infatti, è gestito dai servizi di sicurezza dell’esercito libico e non dalla polizia, come avveniva per il centro di Misratha. I prigionieri sono angosciati: temono per la loro vita perché, dopo la rivolta di Misratha, sono visti come una minaccia per la sicurezza nazionale.

Una situazione drammatica. Per questo motivo gli eritrei di Brak chiedono, attraverso l’associazione Habeshia, «di essere accolti in un Paese terzo, dove vengano rispettati i loro diritti». L’appello viene sostenuto dal Cir che venerdì ha scritto al ministro Maroni, chiedendo che «l’Italia si faccia carico di queste persone, offrendo al governo libico l’immediato trasferimento e reinsediamento in Italia».
«L’apprensione è massima - denuncia Gabriele Del Grande, fondatore del sito "Fortress Europe" - anche nella comunità eritrea di Tripoli è piombata la è paura. Senza dimenticare quello che potrebbe accadere a questi ragazzi se venissero riportati in Eritrea. Di sicuro finirebbero in un campo di detenzione militare».
Sulla rete, anche grazie all’attività di "Fortress Europe", c’è grande mobilitazione. L’osservatorio chiede ai suoi utenti di scrivere una mail al ministro Maroni e al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano «per chiedergli di fermare le violenze e le deportazioni in Libia».

«Le nostre coscienze non possono rimanere tranquille mentre succedono queste cose. Si stanno macchiando di un peccato che rimarrà nella storia dell’umanità - ha detto ieri padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, in un intervento a Radio Vaticana -. Il silenzio fa passare tutto questo come una cosa normale ma è tremendo». La Libia infatti non rende conto a nessuna autorità internazionale del suo operato. Anche l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati è stato allontanato dal Paese circa tre settimane fa.